Nuove sfide per il lavoro sociale: leggere i contesti, connettere le comunità per generare inclusione sociale

Questo 2023 è stato un anno davvero ricco…un anno di cambiamenti, di saluti e nuovi arrivi, di sfide, di certezze e di incertezze, di entusiasmo e di preoccupazioni, di cooperazione e incontro. Tantissime persone hanno attraverso la nostra cooperativa, i nostri servizi, tantissime storie si sono incontrate, conosciute, scoperte.

E’ stato un anno dove abbiamo anche continuato un percorso iniziato nel 2022, accompagnati dalla società Indaco, che attraverso dei percorsi partecipativi ha dato vita a tre progettualità: Fondamenta, un progetto con uno sguardo alle risorse umane della nostra cooperativa; un focus sull’equipe Accoglienze e la costruzione di un manifesto sull’Inclusione Sociale, che ha coinvolto tutt3 3 collegh3 dell’Area Inclusione.

Inclusione sociale. Parte integrante del nostro lavoro quotidiano, obiettivo ma anche stile. Approccio che ci caratterizza dall’inizio della storia di Gruppo R. Ma cosa è cambiato nel tempo e soprattutto, come e dove vogliamo che Gruppo R si posizioni nel nostro territorio e nella nostra città su questo tema?

Per accompagnarci nel trovare risposte ad una domanda così importante abbiamo chiesto supporto a Margherita Neri, socia della cooperativa sociale bolognese Piazza Grande, con due momenti di confronto e facilitazione. Abbiamo chiesto proprio a lei di chiudere questo 2023 nel blog, portandoci la sua visione di inclusione sociale e salutando questo 2023 con queste sue parole che porteremo con noi nel 2024…ma non solo!

“Qual è il problema con la povertà?”

“Quando nel 2015 ho iniziato a lavorare nella Cooperativa Sociale Piazza Grande (cooperativa sociale bolognese, che da oltre vent’anni opera nella lotta alla povertà e
all’emarginazione, promuovendo percorsi di reinserimento sociale, lavorativo e di
empowerment delle persone senza dimora) ho da subito sentito l’esigenza, come operatrice, di dover affrontare un cambiamento che riguarda lo sguardo nei confronti delle persone senza dimora a partire da una domanda: “qual è il problema con la povertà?”

La risposta che mi sono data è che la povertà non è un problema dei poveri.
Infatti se escludiamo che essere senza dimora è l’esito di scelte individuali e guardiamo un po’ di dati scientifici, è assodato che il ruolo della società nel produrre emarginazione non è di poco conto.
Dietro il processo di emarginazione c’è un sistema che esclude:
– se non sei abbastanza ricco puoi studiare fino a un certo punto;
– se non sei abbastanza performante, secondo gli standard del mercato, trovi solo lavori precari e sottopagati (forse);
– se sei straniero spesso vivi in un limbo burocratico che non ti permette di accedere a servizi;
– se hai una patologia psichiatrica sei ai margini;
– se non hai rapporti con la tua famiglia ti trovi sola davanti alle difficoltà, senza reti.

Quando ho iniziato a lavorare in Housing First, un modello che propone alle persone senza dimora accesso immediato alla casa per tutto il tempo necessario ho pensato:
“abbiamo trovato la soluzione alla grave emarginazione adulta: dare casa a tutti”
Il modello si conferma molto efficace nel contrasto alla grave emarginazione adulta, ma paradossalmente l’ingresso in casa, evento estremamente positivo, rischia di relegare le persone alla loro solitudine se il programma non lavora in ottica di comunità e di inclusione.

Casa, relazioni, comunità

Pertanto risulta sì importante parlare di casa, ma assieme a concetti quali quelli di relazione e comunità.
Relazioni: non è solo lo spazio fisico a restituire l’identità intera di persona, ma è necessario sentirsi connesse ad altre persone a partire dai propri desideri, bisogni, capacità.
Comunità: tutte ne siamo parte e tutte dobbiamo sentirci responsabili delle disuguaglianze del sistema, attivandoci per creare una società che tenga
dentro le differenze.

Il lavoro sociale riguarda le connessioni

Per generare una reale inclusione dove tutte possano stare bene all’interno della propria comunità, risulta necessario promuovere l’incontro tra le persone al di fuori di una distinzione o di una categoria, perchè altrimenti si rischia di cristallizzare la relazione tra chi aiuta e chi è aiutato, tra chi ha bisogno e chi no. Come evitare questo rischio?

Partendo da quello che già abbiamo e facciamo. Ovvero, utilizzando e potenziando gli spazi fisici e relazionali per far sì che i bisogni dei diversi soggetti della comunità possano incontrarsi e connettersi, facilitati dal nostro lavoro sociale. Un lavoro che nel mettere a disposizione energie e tempo, apre e accoglie l’altra.
Quindi partiamo dai nostri contesti, dalla conoscenza e comprensione dei contesti (che si tratti di una struttura di accoglienza, un appartamento, un laboratorio di comunità) e orientiamo il nostro intervento nell’intercettare i gruppi (il vicinato) e le comunità già esistenti, favorendo l’interazione fra loro.
Questo tipo di azione mette, spesso, in luce quanto i bisogni delle persone non siano
soddisfatti dalle proprie comunità di riferimento o dai gruppi già esistenti: è qui che emerge la necessità di generare un cambiamento e questo è sicuramente uno spazio importante per facilitare l’inclusione sociale nel territorio.

Lavoriamo per aprire le comunità, connetterle e interconnetterle. Non importa quale sia l’identità del nuovo gruppo che vogliamo creare, né quale sia il collante, ma proviamo a far riconnettere le persone coi propri bisogni e lavoriamo per creare contesti arricchenti, stimolanti e flessibili per far trovare alle persone risposte ai propri bisogni negli altri.”

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