Verso un’alternativa

Che forma potrà avere un gruppo di uomini che si incontra una volta a settimana, per un anno, a discutere dei comportamenti violenti agiti contro la propria compagna o moglie?
Questa era una delle tante domande che affollavano la mia mente tre anni fa, quando ho iniziato a condurre con Antonio il mio primo gruppo per autori di violenza domestica.
Con il tempo e l’esperienza ho capito che ogni gruppo assume una forma propria, irripetibile e mutevole a seconda delle fasi che attraversa e delle storie degli uomini che lo compongono. La rigidità un po’ imbarazzata dei primi incontri, la diffidenza, la negazione e minimizzazione spesso ostinata della violenza, l’espulsione della responsabilità verso qualsiasi cosa purché esterna: le “provocazioni” della donna, l’alcol, i problemi sul lavoro, il carattere. Tutto questo può lasciare spazio, attraverso piccoli, lentissimi passi, alla condivisione.
Tutti gli uomini che incontro nei gruppi hanno pochissime, scarne esperienze di condivisione autentica.
Con la partner, con gli amici, anche più stretti, con i genitori.
Le loro storie raccontano di una incapacità di comprendere, esprimere e condividere emozioni e sentimenti, innanzitutto propri, e di conseguenza anche altrui.
È quindi un punto centrale del percorso che compiamo insieme a loro: stimolarli ad acquisire una capacità di ascolto, riconoscimento ed espressione delle proprie sensazioni, emozioni, sentimenti.
E’ un passaggio fondamentale per questi uomini imparare a nominare ciò che sentono, invece che agirlo attraverso l’atto di violenza.
Imparare a nominare anche la violenza stessa. Chiamarla esattamente così, per ciò che è; nuda, senza sconti.
Una delle prime sessioni del programma di gruppo prevede la lettura ad alta voce e la spiegazione – tramite esempi concreti – delle diverse tipologie di violenza (fisica, psicologica, sessuale, economica).
Un elenco impietoso, che muove negli uomini reazioni differenti: negazione, rabbia, distanziamento paternalistico come quei “Si va beh, io le ho solo dato una sberla, mica l’ho picchiata”.
Quando, però, vengono chiamati a ripercorrere, una per una, tutte le voci di quell’elenco e condividere con il gruppo le azioni di cui si sono resi responsabili in prima persona, le manovre di minimizzazione si fanno meno granitiche, cominciano a sfaldarsi. In quel momento l’uomo è, spesso per la prima volta, costretto a nominare la violenza che ha agito, guardandosi attraverso lo specchio del gruppo, senza molte possibilità di fuga.
Si ritrova faccia a faccia con i comportamenti, le parole, i silenzi, e la sofferenza che ha provocato. Volontariamente provocato.
Spesso questo rappresenta un primo varco di accesso in direzione del cambiamento: rendersi “responsabili” di quei comportamenti violenti, agiti contro la propria compagna e spesso assistiti dai figli e dalle figlie.
Assumersi la responsabilità delle proprie azioni significa smettere di nascondersi dietro giustificazioni esterne, rimanere da soli a reggere il peso di ciò che si ha agito, ed accettarne le conseguenze. Siano esse giuridiche, relazionali, affettive.

Qualche settimana fa un uomo, giunto quasi al termine del percorso di gruppo, ha condiviso come sia stato difficile, ma al contempo illuminante, rendersi conto che i comportamenti violenti che aveva in passato agito non erano stati determinati dall’utilizzo di alcol, cosa di cui per molto tempo si era convinto.

“Perché vuol dire che se non era per quello…. allora sei proprio tu….”.

Camminare accanto, insieme a degli uomini che hanno agito violenza nei confronti di una compagna, è per me, che sono psicologa e donna, tortuoso e non esente da frustrazioni e dubbi.
Fondamentale, almeno per me, è tenere sempre a mente l’obiettivo principe del nostro servizio: contribuire, nei limiti – seppur rigorosi – della nostra professionalità, ad aprire nuove possibilità di scelta per questi uomini, aiutarli nel lavoro maieutico di inventare alternative all’umiliazione, al potere, al controllo.
Affinché le donne, i bambini e le bambine vittime della loro violenza possano sempre più vedersi restituita la libertà di cui hanno diritto.

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