Il 25 novembre ricorre la giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne,
giornata istituita dalle Nazioni Unite a partire dal 1999 e data scelta in
ricordo delle tre sorelle Mirabal, conosciute anche come “ Las Mariposas” (“Le
farfalle”), seviziate violentate e uccise dal dittatore Trujillo nella Repubblica
Dominicana il 25 Novembre del 1960.
L’obiettivo è quello di sensibilizzare sui temi legati alle
varie forme di violenza di cui sono vittime le donne di tutto il mondo: dalla
violenza fisica a quella sessuale, dalla violenza psicologica a quella
economica, dagli atti persecutori come lo stalking fino al
femminicidio.
I percorsi di fuoriuscita dalle situazioni di violenza sono
lunghi e complessi.
Casa Viola, la nostra casa rifugio per donne vittime di
violenza e i loro bambini, come le altre 21 case rifugio del Veneto, svolgono un
ruolo particolarmente importante in questi percorsi: quello di consentire alla
donna di allontanarsi fisicamente e mentalmente da una situazione di pericolo.
Abbiamo chiesto ad una delle donne accolte insieme alle sue
figlie in Casa Viola di raccontarci del suo percorso di fuoriuscita dalla
violenza, con la speranza che questo possa arrivare anche alle tantissime donne
che ancora non sono riuscite a chiedere aiuto, lasciando il messaggio che un’altra
strada è possibile.
“La proposta di entrare in Casa Viola è partita
dall’assistente sociale che mi segue, subito dopo aver deciso di denunciare il
mio compagno. Avevo paura di accettare di farmi aiutare, di affidarmi alla rete
dei servizi; ero preoccupata e mi chiedevo dove sarei andata a stare e a quali
altre regole avrei dovuto sottostare.
Avevo tanti interrogativi su cosa fosse una casa
protetta. Ho parlato con un’amica che aveva attraversato un periodo simile al
mio e mi ha rassicurata dicendomi: “stai tranquilla, starai bene”.
Quando sono arrivata la casa mi ha fatto una buona
impressione, ma ricordo che in quel momento sarei stata disposta ad accettare
anche le peggiori delle condizioni. Prima di arrivare in casa, io e la mia
bambina, avevamo passato vari giorni in
diverse camere d’albergo e lei mi diceva sempre che voleva “una casa vera, con
la cucina”. Io in quel momento avrei fatto di tutto per la sua serenità.
Nel primo periodo tutto era nuovo: non avevo
aspettative concrete, avevo bisogno di essere orientata, ero molto in
confusione. Sono entrata in Casa Viola un mese dopo aver lasciato casa mia;
avevo già rinunciato a tutte le mie comodità e le mie abitudini ed ero disposta
a qualsiasi cosa pur di non ritornare lì. L’unica aspettativa era quella di
trovare una soluzione più stabile per riuscire ad andare avanti.
Non sapevo come avrei
fatto e trovare un posto sereno da cui ripartire ha significato molto.
All’inizio del mio percorso in Casa Viola provavo un
senso di euforia misto a paura, confusione, caratterizzato dal non sapere se
avevo fatto la cosa giusta e dal dispiacere per aver dovuto sconvolgere la vita
di mia figlia. Ricordo che mi sentivo molto in colpa per averla costretta a
cambiare scuola, lasciare i suoi amichetti e i punti di riferimento che avevamo
creato, tutte le sue abitudini e il suo equilibrio.
E’ stato veramente difficile: pensavo di star bene, di
essere una persona forte, che non si deprime.
C’è stato però un momento davvero importante in cui ho
realizzato e accettato la mia condizione e mi sono detta: “Ecco dove mi trovo,
la mia vita e quella di mia figlia sono cambiate radicalmente e tutto
continuerà a cambiare”.
E’ stato come dopo una
scossa di terremoto: uno pensa che il peggio sia passato, ma in realtà ci sono
ancora le scosse di assestamento. In quel momento ho
iniziato ad accettare anche il fatto di poter provare tanta tristezza per tutto
quello che era successo, senza più rinnegarla.
Ho anche un’altra figlia, più grande, che è entrata in
Casa Viola solo più tardi. Durante la mia accoglienza in Casa ha avuto bisogno
di me ed io non sono riuscita a starle vicino come volevo. Mi sono sentita
molto impotente, soprattutto perché mi ha fatto ripensare a tutte le volte che
ho scelto di rimandare l’allontanamento dal mio ex compagno proprio per
garantirle un posto dove stare e perché non volevo pagasse le conseguenze della
mia relazione.
Prima di questa storia con il mio ex compagno avevo
un’indipendenza economica, ero autonoma, ma pian piano ho perso tutto e non
avevo più nulla di mio da poter offrire a lei.
Tuttavia ho cercato di costruirmi una serenità in
questa casa: ha contribuito soprattutto il fatto di non dover parlare ancora
con il mio ex compagno, non dover dare più spiegazioni. Adesso non gli
devo più nulla.
Arrivare qui è stata una liberazione, un traguardo:
senza questo spazio non avrei potuto fare nulla. Adesso il mio ex compagno sa
che io e la bambina viviamo in protezione e questo ha posto un freno,
altrimenti lui avrebbe continuato con le sue minacce, insinuazioni. Adesso
non ha modo di recriminare nulla.
In passato non ero riuscita davvero ad allontanarmi da
lui: in qualche modo ci ricascavo sempre, avevo paura delle sue minacce. Penso
di aver raggiunto un obiettivo: quello di essermi riuscita a svincolare davvero
da lui. Più passano i mesi e più sento che sto facendo la cosa giusta.
Volevo lasciare il mio ex compagno da anni ma me lo ha sempre impedito il fatto di non sapere dove andare. Se non ci fosse stato questo posto probabilmente non sarei mai riuscita a denunciarlo. Come potevo tornare a vivere sotto lo stesso tetto della persona che avevo denunciato?
Non si tratta solo di un discorso economico. Sarei
potuta andare da un’amica, ma avevo bisogno di un posto neutro per riuscire a
svincolarmi da lui e da tutto quello che c’era attorno, la scuola della
bambina, il mio lavoro, le amicizie più strette. Prima avevo bisogno di
cancellare le mie tracce altrimenti sapevo che lui sarebbe venuto a cercarmi e
niente avrebbe potuto impedirglielo.
La cosa fondamentale per uscire dalla violenza è uno spazio protetto come questo. “