Pochi giorni fa è stato l’8 Marzo, festa della donna, e per ricordare l’importanza di questa giornata abbiamo deciso di raccontarvi un altro nostro servizio, un servizio che vuole continuare a lavorare contro la violenza sulle donne, occupandosi però degli uomini che agiscono violenza, intervenendo e offrendo loro una possibilità di cambiamento: il SUM, Servizio Uomini Maltrattanti. Un lavoro sulla consapevolezza della responsabilità e delle conseguenze dei propri comportamenti maltrattanti verso la donna colpita, su i processi culturali intrinsechi che danno origine a rapporti basati sul potere e non sul rispetto, sulla consapevolezza della sofferenza inflitta ai figli e alle figlie, esplorando nuove modalità di essere genitori.
Per questo abbiamo deciso di raccontarvi l’esperienza di C., un uomo maltrattante venuto a contatto con il SUM, attraverso gli occhi di un operatore, di chi cerca di intervenire sulle storie di uomini violenti e offrire strade alternative possibili.
“C. mi chiama perché la moglie, che è venuta a conoscenza del servizio, lo invita a prendere i contatti con noi. Lui accetta anche se fin dal primo contatto telefonico mi dice che non è convinto ma lo fa per lei.
Il giorno del primo colloquio si presenta puntuale; è un uomo alto e abbastanza robusto, mi ripete subito che non è convinto di questa soluzione ma dato che hanno provato tante soluzioni senza risultati, e lui non vuole perdere sua moglie, ha deciso di provare anche questa.
Mi racconta che la relazione con sua moglie ha iniziato ad andare male subito dopo la nascita del loro primo figlio, che da lì hanno iniziato a non capirsi, che lei è cambiata e che nonostante tutti i suoi sforzi per far andare bene le cose non c’è stato nulla da fare. C. tende ad attribuire molte colpe a sua moglie e fa fatica a individuare quali siano state le sue responsabilità in tutti questi anni. Durante i primi colloqui di valutazione, quando facciamo la rilevazione dei comportamenti violenti utilizzando un’apposita check list, lui appare spesso sorpreso e in diverse occasioni mi chiede “ma questa è violenza?”. Un altro aspetto che emerge ripercorrendo gli episodi di violenza avvenuti negli anni è la grande difficoltà di C. di mettersi nei panni della moglie, di capire i suoi bisogni, le sue emozioni e di leggere i comportamenti della moglie che interpreta come attacchi rivolti a lui.
Mi porta anche dei dubbi sulla mascolinità, non riuscendo ad avere una relazione soddisfacente, anche dal punto di vista sessuale, con la moglie.
C. inizialmente dice di non essere preoccupato della relazione con suo figlio ma nel corso dei colloqui successivi emerge che in molti momenti ha fatto fatica a capire quale era il modo giusto per avvicinarsi a lui e di passare del tempo con lui.
Nel raccontarmi la sua storia di figlio mi parla di un padre molto assente, che lavorava molto e che anche il tempo libero decideva di trascorrerlo fuori casa, con i suoi amici. La madre lo ha accudito poco perché, tornata a lavorare quando lui aveva solo tre mesi, ha deciso di affidarlo ad una zia. Condivido con C. che questo ci aiuta a comprendere i suoi comportamenti ma non li giustifica.
Dopo diversi mesi parlando della sua rabbia dice che aumenta molto quando è preoccupato e quando pensa di non avere il controllo della situazione; me ne parla perché la settimana precedente ha avuto un forte litigio con la moglie e l’ha spinta e mi racconta che il litigio è scaturito dalla sua paura di non sapere dove e con chi è la moglie.
E’ un percorso lungo, ormai iniziato da diversi mesi e C. riferisce di stare meglio, di aver capito che frequentare il servizio per lui è un modo per riflettere sui suoi comportamenti e evitare di agire violenza. La scelta di partecipare a questo percorso viene quindi spiegata da C. attraverso una “componente protettiva” nei confronti della moglie, anche se spesso racconta di rendersi conto di essere squalificante nei confronti della moglie, agendo ancora violenza psicologica. C. ha inoltre iniziato a frequentare altri gruppi di mutuo aiuto legati alle sue abitudini nel tempo libero e questo è un altro fattore protettivo per sè e il resto della sua famiglia.
Non so se C. riuscirà ad evitare anche le occasioni in cui agisce violenza psicologica ma mi piace pensare che la violenza fisica pian piano stia uscendo dalla vita di C., e anche di sua moglie, e questo è il nostro primo obiettivo. Ora continuiamo a lavorare sugli altri.”