Liberarsi dalla violenza

Una storia raccolta dal Servizio Uomini Maltrattanti di Gruppo Polis.

Abbiamo iniziato il gruppo psicoeducativo da poco più di due mesi.

Gli uomini che incontriamo – e che si incontrano fra loro e con noi – una volta alla settimana sono cinque.

Stasera D. ci sta raccontando di come, dall’inizio del percorso, non abbia più agito violenza fisica nei confronti della moglie, anche se ammette che ci sono state delle occasioni in cui ha alzato la voce e l’ha offesa.


Aggiunge di rendersi conto che quando si trova all’interno di una discussione con la compagna, gli rimane comunque “quella cosa lì, dentro” che prima lo portava diritto ad uno schiaffo, ad un pugno, a uno spintone, ma che ora riesce a riconoscere, e ha imparato a non assecondare.

Mentre lo ascolto parlare di fronte al gruppo, riconosco in D. lo sforzo di scomporre quella che all’inizio del percorso era nella sua esperienza un’autostrada senza soste né indicazioni, un qualcosa che si riconosceva solo nei suoi effetti finali distruttivi, nelle macerie che si ritrovava di fronte agli occhi, in quello che ora è un abbozzo di percorso che è possibile ripercorrere nelle sue tappe fondamentali.

E’ un tentativo di ricostruzione faticoso, perché mai pensato né tantomeno praticato: nominare le emozioni, dirle ad alta voce, riconoscerle come proprie e come simili a quelle che trapelano dai racconti degli altri partecipanti del gruppo, e poi ricondurle a sé, alla possibilità di averle esperite, e di averle anche confuse.

Perché D., come spesso accade per altri uomini maltrattanti, è abituato ad appiccicare ad ogni sensazione prima, dopo e durante i comportamenti violenti agiti, l’etichetta della rabbia, che trascina poi anche nei tentativi di giustificazione o spiegazione.

Appare stupìto, meravigliato, quando noi, conduttrice e conduttore, proviamo a chiedergli se hai mai provato ad esprimere alla moglie ciò che sentiva: se si era sentito attaccato, triste, se pensava di essere stato frainteso, se si sentiva invece dispiaciuto.

No, non ci hai mai pensato.

L’estrema difficoltà (che sfiora il tabù) di comunicare all’altra le proprie emozioni, e mettere quindi sul piatto della relazione la propria vulnerabilità ma anche autenticità, è preceduta dall’incapacità di potersi dire “io sento”, “io mi sento”.

So che a questo punto del percorso questa domanda può essere accolta, e allora gli chiedo: “Ma quando scegli di non seguire ‘quella cosa là’, di fermarti e di non passare all’atto fisico violento, che cosa senti?”. Qual è la differenza che possono cogliere, qual è lo scarto che ora sono in grado perlomeno di vedere, e che quindi potranno poi, le volte successive, rintracciare e ripercorrere?

Interviene L. con una frase che mette in campo molto più di quello che io e il mio collega potremmo mai “insegnare”: “Da quando non agisco più violenza mi sento LIBERATO”.

E’ molto, è tutto, qui. Ribaltato, capovolto. Ciò che quell’uomo, quando agiva come maltrattante, credeva di maneggiare quale strumento attraverso cui direzionare la lite, mettere a tacere l’altrui punto di vista, porre fine al timore del confronto, si rivela come catena.

Tra le maglie di questa catena ci finirà ancora L., rimbalzando ancora, talvolta, da posizioni di maggiore consapevolezza e assunzione di responsabilità a derive autogiustificative; sopportare la frustrazione di questi ritorni è una delle cose più difficili, ma anche più efficaci, del percorso che facciamo insieme a questi uomini.